domenica 24 maggio 2020

Lo sguardo

Sto studiando regia teatrale, lo sto facendo da autodidatta e con l'aiuto di registi e attori di consumata esperienza. La mia dimensione amatoriale, benché ricca di entusiasmo e di voglia di fare, probabilmente non mi permetterà, almeno per lungo tempo, di diventare un regista consolidato ma sempre un teatrante in itienere, una figura mai del tutto completa.
Lo so e ci ho fatto i conti da tempo con questo limite che, come tutti i limiti, ho l'obbligo verso me stesso e non solo di allargare sempre di più.

Le regie che ho fatto fino adesso sono relative ad un solo spettacolo, modificato di volta in volta, sempre nuovo e sempre arricchito dal contributo di attori, cantanti e altri registi. Mi sto cimentando in un nuovo progetto e so bene quante difficoltà dovrò affrontare, non ultima quella legata alla disponibilità delle sale a seguito dell'emergenza "coronavirus".

Detto questo però mi sto rendendo sempre più conto che un regista che è anche autore delle sue opere deve avere per prima cosa, prima ancora delle trame, delle scenografie, dei cast, della tecnica, delle back-history-list, uno sguardo. Un regista e, a maggior ragione un autore-regista, deve avere uno sguardo sul mondo, sulla quotidianità, sulle persone, sul suo tempo. Uno sguardo, una visione che deve trasmettere al pubblico attraverso le emozioni. Non basta saper fare, così si rischia di diventare abili, abili artigiani (ottimo mestiere per carità) bravi in tutto ma non in quello che conta per un autore.
Ne "La valigia" volevo portare in scena la resilienza, la forza di affrontare le tragedie che la vita ci mette davanti attraverso le nostre contraddizioni, i nostri alibi, le nostre nevrosi, il nostro dolore di vivere affrontando drammi come la perdita lenta e dolorosa di una persona cara, la constatazione del fallimento di una vita, il rimpianto di un tempo che non torna, i sogni infranti. Ne "L'ultimo giorno" era il riconoscimento di un sé superficiale ed egoista dal quale tentare di rinfrancarsi, nel nuovo dramma "Una volta ti vengo a trovare" il racconto è sulle miserie dell'animo umano a confronto con un Dio completamente diverso dall'immaginario collettivo, che si porta dietro le sue contraddizioni e e le sue sconfitte.

È dunque necessario avere uno sguardo sulla persona, sulle sue debolezze e nevrosi che ne condizionano l'esistenza e la reazione alle prove continue che la vita ci mette davanti. Un interrogarsi sul prossimo e sulle sue possibilità di riscatto, un porsi sempre il grande quesito sul senso della vita. È necessario, anzi vitale, per raccontare.

Se non c'è questo sguardo, si può essere artigiani ma non artisti, l'artigiano confeziona un prodotto perfetto, impeccabile, funzionale ed efficace ma un artista offre una visione mutuata dal suo sguardo sul mondo, sull'esistente, non sarà perfetto e preciso come un artigiano ma indurrà a riflettere, a porsi delle domande. E indipendentemente dalle risposte se le emozioni che genereranno quelle domande arriveranno al cuore dello spettatore avrà fatto, grande o piccola, un'opera d'arte.

giovedì 21 maggio 2020

Il bello fra intimo e condiviso

Sto studiando il "Canto del cigno" di Anton Cechov, un autore di grande statura ma che purtroppo non è fra i miei preferiti. Ciò non toglie che "portarlo in scena" (anche se in podcast, quindi in lettura interpretativa) sia un piacere. Con Enzo Brasolin stiamo progettando un lavoro basato su questo testo dove io interpreto il ruolo del suggeritore Nikita Ivànic e Enzo l'attore Svietlovidov. 

Per condurre gli studi di regia teatrale ho dovuto leggere "Il gabbiano" poiché l'autrice del testo, Kate Mitchell, lo adopera come esempio per gli esercizi. Eppure sebbene bello, carico di significati e intenso, questo dramma straordinario (stiamo sempre parlando di uno dei più grandi drammaturghi che siano esistiti), non riesce a muovermi emozioni. Altra cosa è il "Canto del cigno", dove le prime registrazioni di Enzo Brasolin potenti e intense rendono la narrazione più coinvolgente ed emozionante. Qui il dramma esistenziale del personaggio emerge in tutta la sua crudezza, in tutta la sua forza e alla fine lo spettatore (o il lettore) non può non porsi degli interrogativi e sentirsi preso dalla narrazione.

Eppure Cechov, malgrado tutto questo non mi attira. Saranno le atmosfere de "Il gabbiano" così formali, distanti nel tempo e nei modi, saranno i dialoghi che non riescono in taluni punti a non annoiarmi, ma alla fine faccio fatica a finire un suo libro. Cionondimeno mi astengo dal leggerlo: è Checov e se voglio recitare, e far recitare, devo aver letto (e meglio ancora interpretato) se non tutti, almeno i suoi lavori più importanti. 

Del resto George Simenon si formò sugli autori russi e produsse quella meraviglia di romanzi di cui Maigret è solo una minima parte.
È un po' come per i Queen, so che sono un gruppo straordinario che ha scritto pagine irripetibili nella storia del rock, eppure non riescono a piacermi, c'è qualcosa nelle melodie di Freddie Mercury che stride con i miei gusti.
Stesso discorso con la musica lirica: so bene che è arte di altissimo spessore, che esprime canto e grande musica a livelli di elevata eccellenza, eppure non riesco a farmela piacere.

È l'eterna discrasia fra ciò che è bello e ciò che piace e non è vero che è "non bello quel ch'è bello ma è bello quel che piace". A me piacciono brani di cantanti discutibili, interpretazioni poco edificanti (per fortuna sono solo casi isolati, ma ci sono) e non posso dire che sono oggettivamente belli ma muovono delle corde nel mio intimo. Ecco, forse questa è la vera soglia che la bellezza ci rivela sull'animo umano: la distanza fra intimo e pubblico, fra ciò che sentiamo dentro e ciò che condividiamo fuori, fra ciò che ci lega agli altri e ciò ce ne distanzia, fra quello siamo e quello che vorremmo essere.
Una distanza a volte incolmabile.