mercoledì 2 dicembre 2020

Recitare e interpetare


Nella nostra lingua esistono due parole che apparentemente hanno lo stesso significato: recitare e interpretare.

Recitare dal vocabolario Treccani "dal lat. recitare, comp. di re- e citare, propr. «fare l’appello delle persone citate in tribunale», poi «leggere a voce alta»", fra i diversi significati ve ne sono due interessanti: quello di dire ad alta voce un testo imparato a memoria ma non letto e quello di "Interpretare un’opera teatrale, cinematografica, radiofonica o televisiva, o una parte di un’opera". 

Interpretare dal vocabolario Treccani "Intendere e spiegare nel suo vero significato (o in quello che si ritiene sia il significato giusto o più probabile) il pensiero d’uno scritto o d’un discorso il cui senso sia oscuro o dia luogo a dubbî"

Pur convenendo sul fatto che si tratta di una differenza sottile, preferisco la seconda.
L'attore, quando va in scena non si limita a citare, ma va oltre: esprime suo un pensiero che si è fatto del personaggio. Avendo analizzato il testo, avendo capito le circostanze che generano l'azione, egli si costruisce un insieme di atteggiamenti dando un significato alle battute che, per quanto siano sempre quelle, cambiano da interprete ad interprete.

I personaggi sono interpretabili da numerosi punti di vista, da numerose angolazioni: il personaggio di Domenico Soriano, in "Filumena Marturano" può avere diverse chiavi di lettura sebbene la sua storia sia sempre la stessa, e ogni attore trasmetterà quella che più "sente" vera.

Dunque l'interpretazione ritengo che sia più vicina al concetto del teatro; nelle lingue francese e inglese, fra le altre parole si traduce con "giocare" (jouer e to play) ponendo in risalto due cose a mio avviso importanti: l'entusiasmo, caratteristica tipica del gioco e l'accostamento al "lavoro" dei bambini che quando giocano interpretano i personaggi che manifestano, se infatti li guardiamo durante il gioco ci accorgiamo di quale serietà e verità mettano in quello che per noi è un gioco ma per loro è un atto profondamente vero. E la verità del personaggio è il primo compito che deve affrontare l'attore.

domenica 4 ottobre 2020

Il personaggio è il suo passato

Foto di Lorenzo Gaudenzi tratta dalla scena finale dell'opera Risorgimento! Licenza Creative Commons

Konstantin Stanislavskij diceva sovente all'attore: "Tu non hai passato per questa scena. E senza passato non puoi recitarla."

È una frase importante, indica il percorso che l'attore deve affrontare per giungere alla comprensione del personaggio. Ci sono altri approcci, altre fasi complementari per giungere alla comprensione del personaggio da interpretare ma conoscerne il passato, la storia, le generazioni precedenti fa in modo che l'attore possa poi costruire più agevolmente il sottotesto, quell'insieme di pensieri e comportamenti che sostengono la battuta. 

Agli attori che lavorano con me fornisco la back-history list, l'insieme cioè delle azioni passate, cos'è successo prima dell'inizio del dramma, cosa succede fuori dalla scena, cos'è successo nel passato e cosa succede lontano dal luogo dell'azione e le cose da sapere sulla quotidianità dei personaggi. Insieme a questo documento fatto di domande e di fatti oggettivi, aggiungo i profili dei personaggi fino alla seconda generazione, la storia dei genitori e dei nonni, degli zii, dei cugini, dei fratelli, dei familiari, delle loro vicende e delle vicende del personaggio prima del dramma.

Non è necessario scendere nei dettagli, anzi quelli, formati da singoli episodi o da situazioni contestuali, sono la materia di cui l'attore si serve per costruire il passato del suo personaggio conferendogli verità scenica attraverso la creazione intima del sottotesto. Per questo il personaggio deve essere supportato da un passato costruito o dall'autore o dal regista. 

Lo scopo finale è dare "verità" al personaggio, poiché se è vero che nel teatro tutto è finto ma nulla è falso (per usare le parole di Gigi Proietti) è altrettanto vero che una persona qualunque può non essere sincera ma l'attore, sul palco, no.

(Foto di Lorenzo Gaudenzi tratta dalla scena finale dell'opera "Risorgimento!") 
fonte: Wikimedia - Commons

venerdì 31 luglio 2020

L’attore, la verità e la storia

Jean-Jaques Dessalins

Sto leggendo in questi giorni “Lezioni di regia” di Sergej M. Ejzenstejn (l’autore de “La corazzata Potemkim”). Nel corso delle lezioni, al capitolo “La messa in scena” si prende come esempio la fuga dal tranello mortale di Jean-Jaques Dessalins, generale haitiano dell’esercito francese del diciottesimo secolo. Nella descrizione sommaria del contesto egli viene descritto come un eroe che riscatta il suo popolo dalla schiavitù francese. Non dimentichiamo che siamo in Unione Sovietica sotto Stalin, in un tempo in cui il concetto di “rivoluzione” era associato ad una visione glorificante dell’insurrezione come trionfo delle masse oppresse sugli oppressori, non a caso la Rivoluzione francese viene definita “Rivoluzione borghese” e se ne evidenzia la natura tutt’altro che proletaria.

Nel testo il focus però è l’insieme dei ragionamenti sulla migliore disposizione della scena per offrire la giusta lettura del contesto allo spettatore, per cui non vi è un approfondimento dei fatti storici. Incuriosito, depongo il libro e vado a cercare informazioni su Dessalins e m’imbatto in una serie di testi in diverse lingue che parlano delle atrocità commesse dal generale francese che condusse Haiti all’indipendenza, seppure alternata fra diverse vicissitudini. Quella che emerge è una figura sanguinaria, altro che eroe! Fra torture, stupri e massacri di bianchi, anche antischiavisti, e di neri sospettati di connivenze coi francesi, che dal canto loro non erano stati particolarmente teneri (anzi!) con gli isolani tenendone l’80% della popolazione autoctona in schiavitù attraverso il latifondismo, fra gennaio e maggio del 1806 si perpetrò un genocidio di un numero di vittime che va dalle 3000 alle 5000 unità. 

Non entro nell’analisi storica degli eventi haitiani, sia perché non li conosco se non superficialmente, attraverso letture reperite in Rete, sia perché non è mio compito esprimere giudizi storici. In questo contesto mi occupo di teatro. Resto però impressionato dalla forza della propaganda: fino a che non sono andato a cercare informazioni sul personaggio avevo un’impressione positiva di Dessalins, finché l’approfondimento non mi ha dato una visione più concreta, fredda, dolorosa che mette in discussione tutto quello che fino a questo punto ho letto, sebbene il tema sia la messa in scena.

Ecco perché è importante contestualizzare e perché è necessario condurre indagini storiche prima di affrontare un testo e allestire una rappresentazione. Gli attori in scena, se sanno certi fatti, assumono un atteggiamento diverso nell’interpretazione, impostano una caratterizzazione conseguente dei personaggi che attraverso la consapevolezza, soprattutto quando essa è dolorosa, conferisce verità alla recitazione.

venerdì 24 luglio 2020

L'arte che non esiste

Il teatro è l'arte che non esiste, è quell'opera d'arte che esiste nel momento in cui si manifesta e poi non c'è più. Anche se ci sono le repliche, saranno differenti, cambia sempre qualcosa: "L'ultimo giorno" che ha attraversato quattro repliche, lo abbiamo cambiato ogni volta e chi lo ha visto la prima, di fronte all'ultima era davanti ad un nuovo spettacolo, stesso soggetto ma cambiava il testo, cambiava la scena, le musiche, i dipinti che facevano la scenografia.

È diverso da un dipinto, l'incoronazione di Napoleone del David c'era 200 anni fa e c'è tutt'ora al Louvre, quando voglio posso vederlo: l'opera è lì davanti a me. Semmai esiste la letteratura teatrale che però è altra cosa rispetto alla recitazione, allo spettacolo, alla rappresentazione.

Questo porta ad una riflessione, in questo tempo fatto di tecnologia sempre più estrema, la presenza dello spettacolo è offerta dalla fotografia, dal video, dall'immagine. Essa è documentazione, non solo per la futura memoria ma anche e soprattutto per chi non c'era, per chi vorrebbe saperne di più e dunque l'immagine (io amo soprattutto quella fotografica) restituisce la verità scenica, l'attore non è necessariamente bello nella foto di scena, ma è reale, è la verità del personaggio, è la sua intensità, è l'espressione più alta della drammaturgia.

Certo, se una foto è brutta è brutta, ma cos'è una foto brutta? È uno scatto riuscito male, che non ci sta con gli equilibri, che non restituisce la "verità" scenica, non parla della storia, non trasmette emozione.
Dunque le foto migliori in scena non sono quelle in cui siamo tutti bei damerini ma quelle in cui emerge tutta l'intensità e il conflitto del personaggio, della narrazione, dell'insieme.

Quando saliamo sul palco non preoccupiamoci di essere belli, ma di essere veri.
Anche se non sempre la verità è bella.

mercoledì 24 giugno 2020

almicrofono.it in 4 skill

Ebbene sì, da oggi è possibile ascoltare i podcast di almicrofono.it anche sull'assistente vocale Alexa.

È sufficiente seguire questi 4 passaggi:

  1. visita la pagina delle skill di Alexa sul sito di Amazon 
  2. cerca
    • audioclassici
    • audiodrammi
    • audioteatro
    • audioracconti
  3. una volta trovate attivale tutte o solo quelle che ti interessano
  4. procedi secondo le istruzioni che seguono:
    • per riprodurre l'ultimo episodio del podcast dire
      • "Alexa, apri audio classici" oppure
      • "Alexa, apri audio drammi" oppure
      • "Alexa, apri audio teatro" oppure
      • "Alexa, apri audio racconti
    • per mettere in pausa dire "Alexa, pausa
    • per riprendere "Alexa, riprendi"
    • per ascoltare l'episodio precedente dire "Alexa, precedente"
    • per ascoltare l'episodio successivo dire "Alexa, successivo
    • per terminare dire "Alexa, stop"
Buon ascolto!

domenica 24 maggio 2020

Lo sguardo

Sto studiando regia teatrale, lo sto facendo da autodidatta e con l'aiuto di registi e attori di consumata esperienza. La mia dimensione amatoriale, benché ricca di entusiasmo e di voglia di fare, probabilmente non mi permetterà, almeno per lungo tempo, di diventare un regista consolidato ma sempre un teatrante in itienere, una figura mai del tutto completa.
Lo so e ci ho fatto i conti da tempo con questo limite che, come tutti i limiti, ho l'obbligo verso me stesso e non solo di allargare sempre di più.

Le regie che ho fatto fino adesso sono relative ad un solo spettacolo, modificato di volta in volta, sempre nuovo e sempre arricchito dal contributo di attori, cantanti e altri registi. Mi sto cimentando in un nuovo progetto e so bene quante difficoltà dovrò affrontare, non ultima quella legata alla disponibilità delle sale a seguito dell'emergenza "coronavirus".

Detto questo però mi sto rendendo sempre più conto che un regista che è anche autore delle sue opere deve avere per prima cosa, prima ancora delle trame, delle scenografie, dei cast, della tecnica, delle back-history-list, uno sguardo. Un regista e, a maggior ragione un autore-regista, deve avere uno sguardo sul mondo, sulla quotidianità, sulle persone, sul suo tempo. Uno sguardo, una visione che deve trasmettere al pubblico attraverso le emozioni. Non basta saper fare, così si rischia di diventare abili, abili artigiani (ottimo mestiere per carità) bravi in tutto ma non in quello che conta per un autore.
Ne "La valigia" volevo portare in scena la resilienza, la forza di affrontare le tragedie che la vita ci mette davanti attraverso le nostre contraddizioni, i nostri alibi, le nostre nevrosi, il nostro dolore di vivere affrontando drammi come la perdita lenta e dolorosa di una persona cara, la constatazione del fallimento di una vita, il rimpianto di un tempo che non torna, i sogni infranti. Ne "L'ultimo giorno" era il riconoscimento di un sé superficiale ed egoista dal quale tentare di rinfrancarsi, nel nuovo dramma "Una volta ti vengo a trovare" il racconto è sulle miserie dell'animo umano a confronto con un Dio completamente diverso dall'immaginario collettivo, che si porta dietro le sue contraddizioni e e le sue sconfitte.

È dunque necessario avere uno sguardo sulla persona, sulle sue debolezze e nevrosi che ne condizionano l'esistenza e la reazione alle prove continue che la vita ci mette davanti. Un interrogarsi sul prossimo e sulle sue possibilità di riscatto, un porsi sempre il grande quesito sul senso della vita. È necessario, anzi vitale, per raccontare.

Se non c'è questo sguardo, si può essere artigiani ma non artisti, l'artigiano confeziona un prodotto perfetto, impeccabile, funzionale ed efficace ma un artista offre una visione mutuata dal suo sguardo sul mondo, sull'esistente, non sarà perfetto e preciso come un artigiano ma indurrà a riflettere, a porsi delle domande. E indipendentemente dalle risposte se le emozioni che genereranno quelle domande arriveranno al cuore dello spettatore avrà fatto, grande o piccola, un'opera d'arte.

giovedì 21 maggio 2020

Il bello fra intimo e condiviso

Sto studiando il "Canto del cigno" di Anton Cechov, un autore di grande statura ma che purtroppo non è fra i miei preferiti. Ciò non toglie che "portarlo in scena" (anche se in podcast, quindi in lettura interpretativa) sia un piacere. Con Enzo Brasolin stiamo progettando un lavoro basato su questo testo dove io interpreto il ruolo del suggeritore Nikita Ivànic e Enzo l'attore Svietlovidov. 

Per condurre gli studi di regia teatrale ho dovuto leggere "Il gabbiano" poiché l'autrice del testo, Kate Mitchell, lo adopera come esempio per gli esercizi. Eppure sebbene bello, carico di significati e intenso, questo dramma straordinario (stiamo sempre parlando di uno dei più grandi drammaturghi che siano esistiti), non riesce a muovermi emozioni. Altra cosa è il "Canto del cigno", dove le prime registrazioni di Enzo Brasolin potenti e intense rendono la narrazione più coinvolgente ed emozionante. Qui il dramma esistenziale del personaggio emerge in tutta la sua crudezza, in tutta la sua forza e alla fine lo spettatore (o il lettore) non può non porsi degli interrogativi e sentirsi preso dalla narrazione.

Eppure Cechov, malgrado tutto questo non mi attira. Saranno le atmosfere de "Il gabbiano" così formali, distanti nel tempo e nei modi, saranno i dialoghi che non riescono in taluni punti a non annoiarmi, ma alla fine faccio fatica a finire un suo libro. Cionondimeno mi astengo dal leggerlo: è Checov e se voglio recitare, e far recitare, devo aver letto (e meglio ancora interpretato) se non tutti, almeno i suoi lavori più importanti. 

Del resto George Simenon si formò sugli autori russi e produsse quella meraviglia di romanzi di cui Maigret è solo una minima parte.
È un po' come per i Queen, so che sono un gruppo straordinario che ha scritto pagine irripetibili nella storia del rock, eppure non riescono a piacermi, c'è qualcosa nelle melodie di Freddie Mercury che stride con i miei gusti.
Stesso discorso con la musica lirica: so bene che è arte di altissimo spessore, che esprime canto e grande musica a livelli di elevata eccellenza, eppure non riesco a farmela piacere.

È l'eterna discrasia fra ciò che è bello e ciò che piace e non è vero che è "non bello quel ch'è bello ma è bello quel che piace". A me piacciono brani di cantanti discutibili, interpretazioni poco edificanti (per fortuna sono solo casi isolati, ma ci sono) e non posso dire che sono oggettivamente belli ma muovono delle corde nel mio intimo. Ecco, forse questa è la vera soglia che la bellezza ci rivela sull'animo umano: la distanza fra intimo e pubblico, fra ciò che sentiamo dentro e ciò che condividiamo fuori, fra ciò che ci lega agli altri e ciò ce ne distanzia, fra quello siamo e quello che vorremmo essere.
Una distanza a volte incolmabile.