domenica 30 giugno 2019

Saper tacere

Mauro Stante con Patrizia Battaglia
e Niko Ferrucci
in un tempo ne “La locandiera”
È un bene prezioso, in ogni sua forma e significato il tempo condiziona la nostra esistenza. Nella nostra lingua poi ancor di più poiché con la medesima parola si può indicare tanto il suo significato cronologico che quello meteorologico, e in questa commistione si può pure ricorrere a metafore che facciano riferimento allo stato delle cose.
Il tempo è oggetto di poesie e canzoni per il suo contenuto carico di significati, a tal proposito suggerisco l’ascolto di “C’è tempo” di Ivano Fossati in cui esso diventa autentica metafora dell’esistenza.
Nel teatro assume significati importantissimi. Determina la comicità o il dramma, sposta l’attenzione o genera attesa, esprime emozioni attraverso il suo uso accorto.
“La comicità, sostiene Gigi Proietti, è questione di tempi”. Porre un silenzio dopo una frase produce aspettativa, aiuta lo spettatore a percepire meglio l’espressione dell’attore, quel silenzio può cambiare il senso di una frase, pensiamo a quando si espone un concetto con piglio sicuro e poi si chiude con una pausa, e si chiede “...o no?”. L’effetto comico è dato sì dal senso del contrario, come diceva Pirandello, ma la sua connotazione, la sua importanza e il suo significato è determinato dalla durata di quel tempo.
Il silenzio parla: c’è un silenzio indifferente, uno stupito, uno rassegnato, uno euforico e uno addolorato, uno tragico e uno felice, uno terrorizzato e uno severo, uno allegro e uno triste e così via. Il “tempo” nel teatro è il silenzio fra una frase e l’altra e la sua importanza è tale che la bravura di un attore è determinata più dal suo silenzio che dalla sua orazione, poiché la recitazione non è solo declamazione ma un insieme di elementi fra i quali il silenzio è una componente fondamentale, un attore è tanto più bravo quanto più sa tacere.

martedì 25 giugno 2019

Verso i versi

Recitare una poesia è tutt'altro che semplice. A scuola (almeno per quelli della mia età che si avvicina pericolosamente ai sessanta) ci hanno insegnato da piccoli a citare le poesie quasi come le filastrocche, al punto che si perdeva il senso di ciò che si enunciava.
Penso a mia madre che mi recitava a memoria “La spigolatrice di Sapri” come un’allegra tarantella senza musica producendo il mio disappunto per l’assurdità di tale scelta. Ma come, dicevo, una ragazzina va a spigolare e in spiaggia trova non uno (che già sarebbe traumatico) ma ben trecento cadaveri di “giovani e forti” ragazzi trucidati dai soldati e che fa? Si mette a saltellare allegra? Ma scherziamo? La poesia in questo caso deve restituire, attraverso un’appassionata interpretazione, tutto l’orrore, il dolore, lo sgomento per quello che questa povera donna vede, assiste allo scempio della vita, descrive l’ardore fiero di quei ragazzi e la loro tragica fine. Come può la declamazione di una poesia, che è emozione anzitutto, in cui si parla di strage e orrore, di morte, essere un’allegra filastrocca?
Certo, mia madre seguiva il registro che le avevano impartito quand’era bambina e a quello si atteneva poiché la poesia non era la prima delle sue preoccupazioni come non lo sarebbe stata per me se non avessi frequentato la scuola di recitazione.
Ma nel momento in cui si va in scena nulla è più come prima: nasce la consapevolezza, poiché recitare è trasferire emozioni, piacevoli o dolorose non conta, quello è anzitutto il teatro: e-mo-zio-ne. E quando si trasmettono emozioni bisogna prima viverle in sé per poterle trasferire. Diceva Louis Jouvet, nelle lezioni di teatro “Elvire 40. Sept leçon de Théâtre” che il sentimento precede la battuta e che "une chose obtenue sans effort ce n'est pas bon" (una cosa ottenuta senza sforzo non è buona). Dunque quando si declama una poesia si è immersi in quel contesto, in quel clima che genera il pathos necessario per offrire una battuta dell’intensità necessaria a immergere lo spettatore in quel contesto.
Invito all’ascolto di due poesie lette da Maryl Streep, una brevissima di un poeta cinese, Wang Wei “Luzhai” e una di Martha Graham “A letter to Agnes Demille”.
Esorto il lettore a concentrarsi non sul testo, anzi proprio perché è in un’altra lingua le parole vanno percepite come suoni e non come contenuti, ma sulla prosodia, sull’insieme cioè di elementi che compongono il porgere la parola: volume, tono, velocità, e ci si accorgerà che il senso del testo sarà stato comunque percepito, proprio perché l’attrice vive quell’emozione che offre allo spettatore attraverso il pathos. Può essere un’interpretazione più o meno “asciutta” più o meno “partecipata", ma se è ben fatta, l’emozione arriva, e rimane.

La recitazione di Maryl Streep
Il testo della poesia di Wang Wei "Luzhai"
Il testo di Martha Graham "A letter to Agnes Demille"

venerdì 7 giugno 2019

Queneau e il sottotesto.

Correva l'anno 1947 quando Raymond Queneau pubblicava per i tipi di Gallimard gli "Exercices de style" per poi rivisitarli nel 1963 ed infine nel 1973. In Italia giunsero nel 1983 tradotti da Umberto Eco per i tipi di Einaudi.

Ma cos'erano gli "Esercizi di stile"?
Nella buona sostanza si stratta di novantanove racconti di una stessa scena rivista ogni volta in modo diverso. In altre parole il drammaturgo francese dimostrava come una stessa situazione poteva essere raccontata in modo differente.

Si tratta di un testo basilare per chi affronta il teatro seriamente ed è molto affine al concetto di sottotesto. Quando si recita una battuta, lo si può fare in differenti modi: la frase "ti amo" ad esempio può essere espressa con affetto, con rabbia, con delusione, con tenerezza, con rimorso eccetera. Il sottotesto è l'identificazione della frase che porta in sé il significato di quella interpretazione; per cui in uno stato particolare di rabbia la frase "ti amo" può essere interpretata con il significato di "ti amo, lurido bastardo!". Ovviamente la frase che lo spettatore ascolterà sarà solo "ti amo", ma la prosodia con cui si manifesta, con l'insieme cioè delle connotazioni vocali (intensità, velocità, espressione ecc.), fanno sì che ciò che lo spettatore percepisce è appunto la frase "ti amo, bastardo!" che è esattamente l'opposto di ciò che si sta dicendo (un ossimoro di fatto).
Potremmo dunque definire il sottotesto come l'elemento del "percepito" da parte di chi ascolta, una variante che deve essere adottata con la massima padronanza per non far pervenire allo spettatore il messaggio sbagliato.

Si tratta di un'ulteriore variante, questa volta non affidata all'autore però ma al regista e all'attore, di quanto esposi già nell'articolo dell'undici aprile sempre sul mio blog dal titolo "Far parlare le voci di dentro".

Questa caratteristica la intendiamo molto bene anche nella vita quotidiana: quante volte ci chiediamo cosa intendesse esattamente dire una persona che ha pronunciato una frase in maniera sibillina (ad esempio)?

Mercoledì 10 e giovedì 11 luglio 2019 presso il centro "Il Gabbiano" di via Isonzo 31 alle ore 20:30, Gian Carlo Fantò Autore, regista e attore terrà uno stage di recitazione proprio sul tema del sottotesto. Un'occasione importante per approfondire un tema che è molto più complesso e difficile da padroneggiare in scena. Sarà utile sia a chi calca le scene che a chi ama il teatro ed è semplicemente incuriosito e attratto dalle sue dinamiche.

mercoledì 5 giugno 2019

Guardami negli occhi!

dall'alto in basso particolari di:
"Old man" (Laura Musikanski)
"L'ultimo giorno - III° atto" (Maura Scalenghe)
"L'ultimo giorno" (Rosa Gattuso)
Si parla anzitutto con gli occhi. Questa visione analogica della comunicazione umana è più forte che mai nel teatro. Lo spettatore non può fare a meno di osservare gli occhi dei personaggi, e sebbene siano piccolissimi, occupano infatti meno dell'uno per cento della scena, hanno un peso che va ben oltre la metà di tutto il lavoro di sceneggiatura, movimento del corpo, della voce, del testo, della recitazione stessa. Non è un caso che il vecchio principe Bolkonsky del grande romanzo storico "Guerra e Pace" venisse descritto da Leone Tolstoij come un uomo che rideva solo con gli occhi.
Anzi, gli occhi sono parte della recitazione e ne determinano spesso il successo o l'insuccesso. Difficile mentire con gli occhi. Penso per esempio ad Arnoldo Foà che nella sua autobiografia ammette di aver sofferto di mal di testa anche tre volte alla settimana.
Ebbene la grandezza di un attore sta anche in questa capacità di dissimulare il dolore, gli occhi non mentono e se una persona soffre, gli occhi sono i primi a dircelo. Essere gioiosi, allegri o arrabbiati, determinati o incerti quando il dolore indurrebbe ad un silenzio, ad una compostezza, al riposo e non far trasparire quell'anelito di fuga da un male che a volte è atroce è il talento vero e profondo di un attore, è la sua essenza, il suo essere altro, essere un altro.
Ecco. Essere attori significa essere altri anche quando si soffre pure fisicamente, ma come diceva sempre il grande Arnoldo Foà: anzitutto bisogna essere.