Recitare una poesia è tutt'altro che semplice. A scuola (almeno per quelli della mia età che si avvicina pericolosamente ai sessanta) ci hanno insegnato da piccoli a citare le poesie quasi come le filastrocche, al punto che si perdeva il senso di ciò che si enunciava.
Penso a mia madre che mi recitava a memoria “La spigolatrice di Sapri” come un’allegra tarantella senza musica producendo il mio disappunto per l’assurdità di tale scelta. Ma come, dicevo, una ragazzina va a spigolare e in spiaggia trova non uno (che già sarebbe traumatico) ma ben trecento cadaveri di “giovani e forti” ragazzi trucidati dai soldati e che fa? Si mette a saltellare allegra? Ma scherziamo? La poesia in questo caso deve restituire, attraverso un’appassionata interpretazione, tutto l’orrore, il dolore, lo sgomento per quello che questa povera donna vede, assiste allo scempio della vita, descrive l’ardore fiero di quei ragazzi e la loro tragica fine. Come può la declamazione di una poesia, che è emozione anzitutto, in cui si parla di strage e orrore, di morte, essere un’allegra filastrocca?
Certo, mia madre seguiva il registro che le avevano impartito quand’era bambina e a quello si atteneva poiché la poesia non era la prima delle sue preoccupazioni come non lo sarebbe stata per me se non avessi frequentato la scuola di recitazione.
Ma nel momento in cui si va in scena nulla è più come prima: nasce la consapevolezza, poiché recitare è trasferire emozioni, piacevoli o dolorose non conta, quello è anzitutto il teatro: e-mo-zio-ne. E quando si trasmettono emozioni bisogna prima viverle in sé per poterle trasferire. Diceva Louis Jouvet, nelle lezioni di teatro “Elvire 40. Sept leçon de Théâtre” che il sentimento precede la battuta e che "une chose obtenue sans effort ce n'est pas bon" (una cosa ottenuta senza sforzo non è buona). Dunque quando si declama una poesia si è immersi in quel contesto, in quel clima che genera il pathos necessario per offrire una battuta dell’intensità necessaria a immergere lo spettatore in quel contesto.
Invito all’ascolto di due poesie lette da Maryl Streep, una brevissima di un poeta cinese, Wang Wei “Luzhai” e una di Martha Graham “A letter to Agnes Demille”.
Esorto il lettore a concentrarsi non sul testo, anzi proprio perché è in un’altra lingua le parole vanno percepite come suoni e non come contenuti, ma sulla prosodia, sull’insieme cioè di elementi che compongono il porgere la parola: volume, tono, velocità, e ci si accorgerà che il senso del testo sarà stato comunque percepito, proprio perché l’attrice vive quell’emozione che offre allo spettatore attraverso il pathos. Può essere un’interpretazione più o meno “asciutta” più o meno “partecipata", ma se è ben fatta, l’emozione arriva, e rimane.
La recitazione di Maryl Streep
Il testo della poesia di Wang Wei "Luzhai"
Il testo di Martha Graham "A letter to Agnes Demille"