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domenica 4 ottobre 2020

Il personaggio è il suo passato

Foto di Lorenzo Gaudenzi tratta dalla scena finale dell'opera Risorgimento! Licenza Creative Commons

Konstantin Stanislavskij diceva sovente all'attore: "Tu non hai passato per questa scena. E senza passato non puoi recitarla."

È una frase importante, indica il percorso che l'attore deve affrontare per giungere alla comprensione del personaggio. Ci sono altri approcci, altre fasi complementari per giungere alla comprensione del personaggio da interpretare ma conoscerne il passato, la storia, le generazioni precedenti fa in modo che l'attore possa poi costruire più agevolmente il sottotesto, quell'insieme di pensieri e comportamenti che sostengono la battuta. 

Agli attori che lavorano con me fornisco la back-history list, l'insieme cioè delle azioni passate, cos'è successo prima dell'inizio del dramma, cosa succede fuori dalla scena, cos'è successo nel passato e cosa succede lontano dal luogo dell'azione e le cose da sapere sulla quotidianità dei personaggi. Insieme a questo documento fatto di domande e di fatti oggettivi, aggiungo i profili dei personaggi fino alla seconda generazione, la storia dei genitori e dei nonni, degli zii, dei cugini, dei fratelli, dei familiari, delle loro vicende e delle vicende del personaggio prima del dramma.

Non è necessario scendere nei dettagli, anzi quelli, formati da singoli episodi o da situazioni contestuali, sono la materia di cui l'attore si serve per costruire il passato del suo personaggio conferendogli verità scenica attraverso la creazione intima del sottotesto. Per questo il personaggio deve essere supportato da un passato costruito o dall'autore o dal regista. 

Lo scopo finale è dare "verità" al personaggio, poiché se è vero che nel teatro tutto è finto ma nulla è falso (per usare le parole di Gigi Proietti) è altrettanto vero che una persona qualunque può non essere sincera ma l'attore, sul palco, no.

(Foto di Lorenzo Gaudenzi tratta dalla scena finale dell'opera "Risorgimento!") 
fonte: Wikimedia - Commons

giovedì 21 maggio 2020

Il bello fra intimo e condiviso

Sto studiando il "Canto del cigno" di Anton Cechov, un autore di grande statura ma che purtroppo non è fra i miei preferiti. Ciò non toglie che "portarlo in scena" (anche se in podcast, quindi in lettura interpretativa) sia un piacere. Con Enzo Brasolin stiamo progettando un lavoro basato su questo testo dove io interpreto il ruolo del suggeritore Nikita Ivànic e Enzo l'attore Svietlovidov. 

Per condurre gli studi di regia teatrale ho dovuto leggere "Il gabbiano" poiché l'autrice del testo, Kate Mitchell, lo adopera come esempio per gli esercizi. Eppure sebbene bello, carico di significati e intenso, questo dramma straordinario (stiamo sempre parlando di uno dei più grandi drammaturghi che siano esistiti), non riesce a muovermi emozioni. Altra cosa è il "Canto del cigno", dove le prime registrazioni di Enzo Brasolin potenti e intense rendono la narrazione più coinvolgente ed emozionante. Qui il dramma esistenziale del personaggio emerge in tutta la sua crudezza, in tutta la sua forza e alla fine lo spettatore (o il lettore) non può non porsi degli interrogativi e sentirsi preso dalla narrazione.

Eppure Cechov, malgrado tutto questo non mi attira. Saranno le atmosfere de "Il gabbiano" così formali, distanti nel tempo e nei modi, saranno i dialoghi che non riescono in taluni punti a non annoiarmi, ma alla fine faccio fatica a finire un suo libro. Cionondimeno mi astengo dal leggerlo: è Checov e se voglio recitare, e far recitare, devo aver letto (e meglio ancora interpretato) se non tutti, almeno i suoi lavori più importanti. 

Del resto George Simenon si formò sugli autori russi e produsse quella meraviglia di romanzi di cui Maigret è solo una minima parte.
È un po' come per i Queen, so che sono un gruppo straordinario che ha scritto pagine irripetibili nella storia del rock, eppure non riescono a piacermi, c'è qualcosa nelle melodie di Freddie Mercury che stride con i miei gusti.
Stesso discorso con la musica lirica: so bene che è arte di altissimo spessore, che esprime canto e grande musica a livelli di elevata eccellenza, eppure non riesco a farmela piacere.

È l'eterna discrasia fra ciò che è bello e ciò che piace e non è vero che è "non bello quel ch'è bello ma è bello quel che piace". A me piacciono brani di cantanti discutibili, interpretazioni poco edificanti (per fortuna sono solo casi isolati, ma ci sono) e non posso dire che sono oggettivamente belli ma muovono delle corde nel mio intimo. Ecco, forse questa è la vera soglia che la bellezza ci rivela sull'animo umano: la distanza fra intimo e pubblico, fra ciò che sentiamo dentro e ciò che condividiamo fuori, fra ciò che ci lega agli altri e ciò ce ne distanzia, fra quello siamo e quello che vorremmo essere.
Una distanza a volte incolmabile.

domenica 18 agosto 2019

Fatti e domande

Una delle tecniche di regia teatrale (ma non solo) riguarda uno strumento importante: la back history list: una lista delle attività che precedono l'azione scenica e che riguarda sia i contesti che i personaggi. La lista è divisa in due aree, i fatti e le domande, nella lista dei fatti si collocano gli elementi consolidati (luogo dell'azione, periodo temporale, identità dei personaggi ecc.) nella lista delle domande vengono riportati quegli elementi che per essere considerati fatti necessitano di una risposta; quindi fra le domande ci possono essere il passato dei personaggi, le distanze dal luogo dell'azione ad un altro luogo anche solo citato, le caratteristiche del luogo che sono fuori dalla scena, aspetti che vengono trattati come parte della narrazione (ad esempio: lo stipendio di 20 rubli mensili nel 1870 a quanto ammonta in euro attuali). Ogni volta che si fornisce una risposta, la domanda diventa un fatto.

Questa tecnica esposta molto bene da Katie Mitchell nel suo testo "Il mestiere della regia", tradotto da Federica Mazzocchi per i tipi della "Dino Audino Editore", offre lo spunto a delle considerazioni che vanno oltre la rappresentazione teatrale, ma insegnano dei concetti interessanti anche nella nostra vita di tutti i giorni.

La prima considerazione che mi viene in mente è che i fatti sono l'esito di risposte a domande che quanto più precise sono, maggiore sarà il livello di solidità di quei fatti emersi dalle risposte. Un conto è chiedere che tempo farà in questa settimana, un altro è chiedere che tempo farà martedì pomeriggio fra le 14 e le 17. Un conto è chiedere quale sia l'orientamento politico di un partito, un altro è chiedere quale programma intenderebbe adottare se fosse al governo. Le risposte alle seconde domande di questi esempi citati sono più mirate e assegnano ai fatti una maggiore precisione. Va anche riconosciuto che le prime sono più vaghe e consentono più  risposte, mentre le seconde sono più dirette e lasciano poco spazio a interpretazioni. Le prime sono più "diplomatiche", le seconde più "concrete". Torna alla mente il concetto di domanda aperta e domanda chiusa: la prima offre lo spazio a risposte più articolate, la seconda (caratterizzata da una risposta Sì o No) non lascia scampo. Semplificando: un conto è chiedere di parlare della tragedia della seconda guerra mondiale, un altro è chiedere se è vero che la seconda guerra mondiale sia esistita o meno.

Una seconda considerazione è che i fatti hanno una base meno solida di quanto si creda. Siamo soliti pensare che un fatto, poiché esito di una domanda e di una risposta, sia incontrovertibile. Ciò in parte è vero per l'oggettività (se oggi nevica non si può affermare che non sia così) ma se la domanda è poco precisa, il fatto perde di concretezza in quanto se viene chiesto se oggi ha nevicato ciò può essere vero per una parte del giorno ma magari non per tutto. Dunque, a seconda di come la domanda viene posta e di cosa ci si vuol sentire dire come risposta il fatto può assumere una maggiore o minore concretezza, ma la risposta può variare ed essere sempre corretta.

A tal proposito è illuminante un episodio relativo al "pilotare" le risposte [di cui purtroppo ho perso i riferimenti storici]: venne chiesto tanti anni fa ad un campione di popolazione statunitense se fossero favorevoli all'invio di truppe americane a difesa di popolazioni oppresse e il risultato fu particolarmente favorevole, ad un secondo campione venne chiesto se fossero d'accordo a far andare a rischiare la vita dei ragazzi americani per difendere popolazioni nel resto del mondo e il risultato fu molto ostile. Dunque emersero due fatti diversi difronte ad una stessa situazione: il consenso dei cittadini americani verso l'intervento delle loro truppe in difesa di altri popoli.

Nel dramma di Pirandello "Così è se vi pare" questo concetto viene esasperato e portato all'estremo. La verità è dunque, come i fatti, oggetto di differenti spiegazioni che nascono da domande poste sovente con diverse aspettative.

Anche lo spettatore si pone delle domande davanti al palcoscenico, anch'egli cerca delle risposte, risposte che si deve dare (si è detto qualche post fa) con sforzo, creandosi una sua regia ponendo l'attenzione dove vuole e non dove impone il/la regista (al contrario del cinema). Ogni volta che lo spettatore si da una risposta davanti ad una domanda ha interiorizzato un fatto, un cardine intorno al quale costruisce il prosieguo della narrazione che alla fine sarà un concatenarsi di fatti.

E' importante dunque che da chi ha il carico della regia all'ultima comparsa, ciascuno abbia ben chiare tutte le risposte e si sia posto le domande giuste, poiché gli spettatori applaudono sui fatti e fischiano sulle domande, quelle a cui non è stata data sufficiente risposta.