giovedì 21 maggio 2020

Il bello fra intimo e condiviso

Sto studiando il "Canto del cigno" di Anton Cechov, un autore di grande statura ma che purtroppo non è fra i miei preferiti. Ciò non toglie che "portarlo in scena" (anche se in podcast, quindi in lettura interpretativa) sia un piacere. Con Enzo Brasolin stiamo progettando un lavoro basato su questo testo dove io interpreto il ruolo del suggeritore Nikita Ivànic e Enzo l'attore Svietlovidov. 

Per condurre gli studi di regia teatrale ho dovuto leggere "Il gabbiano" poiché l'autrice del testo, Kate Mitchell, lo adopera come esempio per gli esercizi. Eppure sebbene bello, carico di significati e intenso, questo dramma straordinario (stiamo sempre parlando di uno dei più grandi drammaturghi che siano esistiti), non riesce a muovermi emozioni. Altra cosa è il "Canto del cigno", dove le prime registrazioni di Enzo Brasolin potenti e intense rendono la narrazione più coinvolgente ed emozionante. Qui il dramma esistenziale del personaggio emerge in tutta la sua crudezza, in tutta la sua forza e alla fine lo spettatore (o il lettore) non può non porsi degli interrogativi e sentirsi preso dalla narrazione.

Eppure Cechov, malgrado tutto questo non mi attira. Saranno le atmosfere de "Il gabbiano" così formali, distanti nel tempo e nei modi, saranno i dialoghi che non riescono in taluni punti a non annoiarmi, ma alla fine faccio fatica a finire un suo libro. Cionondimeno mi astengo dal leggerlo: è Checov e se voglio recitare, e far recitare, devo aver letto (e meglio ancora interpretato) se non tutti, almeno i suoi lavori più importanti. 

Del resto George Simenon si formò sugli autori russi e produsse quella meraviglia di romanzi di cui Maigret è solo una minima parte.
È un po' come per i Queen, so che sono un gruppo straordinario che ha scritto pagine irripetibili nella storia del rock, eppure non riescono a piacermi, c'è qualcosa nelle melodie di Freddie Mercury che stride con i miei gusti.
Stesso discorso con la musica lirica: so bene che è arte di altissimo spessore, che esprime canto e grande musica a livelli di elevata eccellenza, eppure non riesco a farmela piacere.

È l'eterna discrasia fra ciò che è bello e ciò che piace e non è vero che è "non bello quel ch'è bello ma è bello quel che piace". A me piacciono brani di cantanti discutibili, interpretazioni poco edificanti (per fortuna sono solo casi isolati, ma ci sono) e non posso dire che sono oggettivamente belli ma muovono delle corde nel mio intimo. Ecco, forse questa è la vera soglia che la bellezza ci rivela sull'animo umano: la distanza fra intimo e pubblico, fra ciò che sentiamo dentro e ciò che condividiamo fuori, fra ciò che ci lega agli altri e ciò ce ne distanzia, fra quello siamo e quello che vorremmo essere.
Una distanza a volte incolmabile.