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Ho fatto tanti anni il rappresentante e la prima cosa che ho imparato (e insegnato a mia volta) era di reagire alle obiezioni dei clienti arrabbiati per i disguidi dell’azienda che rappresentavo, consegne in ritardo, prodotti sbagliati o mancanti, fatture errate ecc., situazioni in cui il cliente aveva ragione. Se l’obiezione era manifestata entro certi limiti di educazione e rispetto, la reazione non doveva essere un’azione (“provvedo subito”, “lei ha ordinato tardi!”, “sono cose che succedono, che ci vuole fare?”) ma una manifestazione di dispiacere, di “dolore” condiviso col cliente, di una compassione (intesa come “patire-con” cioè insieme) far capire cioè all’interlocutore che lo si comprendeva e si era solidali con lui. Solo dopo questo passaggio si poteva procedere all’azione, in sintonia col cliente si cercava la soluzione.
In scena è lo stesso. La prima cosa che il pubblico si attende è la reazione dell’attore aggredito, ferito o esaltato e riverito: ti sparo? Non puoi spararmi a tua volta, se ti ho colpito manifesto la sofferenza se non mi hai colpito cerco riparo e rispondo (se sono armato) al fuoco, se mi insulti non ti contro insulto subito ma faccio percepire il disagio e la rabbia, e solo dopo passo all’azione. Altrimenti tutto diventa un botta-e-risposta che raramente appassiona e spesso annoia lo spettatore. L’emozione passa attraverso la reazione degli attori come un agire in conseguenza di qualcosa e non come sterile ribattuta.
Lo spettatore vuole emozionarsi, vedere e “sentire” quello che provano i personaggi. Altrimenti si annoia, diventa tutto come in una partita di tennis fra robot dove ogni lancio è preciso e ribattuto ma senza produrre emozione: dopo pochi secondi arriva lo sbadiglio.