Nel 1987 mi trovavo a Ibiza, con un gruppo di turisti italiani, inglesi e americani, eravamo andati ad assistere a una serata di cabaret internazionale. Fra le esibizioni vi era quella di un gruppo americano che suonava del buon jazz e nel cui cast spiccava un artista di colore che oltre ad essere un abile vocalist aveva anche doti comiche. In diversi momenti faceva le facce strane, cambiava il timbro della voce (peraltro dotata di bassi potenti, alla Barry White per intenderci) e assumeva toni grotteschi e riconducibili a Jerry Lewis.
I nostri amici anglosassoni ridevano come matti di quelle performance mentre noi italiani restavamo alquanto indifferenti e, a parte qualche risolino più di circostanza che di sostanza, piuttosto irritati da quello scomposto ridere davanti a cose poco coinvolgenti, almeno per noi.
Notai in quell'occasione come far ridere gli anglosassoni, e soprattutto gli americani, fosse estremamente facile. M'inventai dunque la "sindrome del picchiatello" (dal celebre film di e con Jerry Lewis "Qua la mano picchiatello"), intesa come quella forma di comicità non basata sui contenuti ma sull'esteriorità. Una comicità leggera, che non induce a riflettere ma a ridere e a deridere.
Ebbi la fortuna di scambiare su questo tema, anni dopo, due parole con Bruno Lauzi il quale convenne con me che far ridere gli americani in fondo è facile ma far ridere gli italiani è piuttosto difficile, "vero -aggiunse lui- ma è altrettanto più facile far piangere gli italiani che gli americani. In Italia -aggiunse- parla della madre, fai melodramma e farai scorrere fiumi di lacrime."
Pensavo a queste parole quando qualche sera fa fra amici si parlava dei soggetti che ho in mente di mettere in scena da qui ai prossimi quattro anni: tutti drammi e tragedie. Mi chiedevano "ma tu, qualcosa di allegro mai eh?"; hanno ragione, la comicità per noi italiani è complicata. È difficile far ridere anche se questo è ciò che il pubblico chiede. Vedo che le commedie brillanti, i comici, il cabaret hanno quasi sempre fortuna, mentre i drammi e le tragedie, a meno che non siano portate in scena da grandi protagonisti del palcoscenico, fanno più fatica a riempire le sale.
Molière sosteneva che la gente ride perché ragiona su ciò che ha sentito ecco perché l'arte comica è la migliore per trasmettere messaggi politici e per far riflettere. Quando per esempio Rocco Barbaro nei suoi sketch ci fa ridere di due calabresi che si incontrano per caso e dicono "Che si dice? Che si dice?" ecc. ci fa ridere non tanto e soltanto per la mimica espressiva che accompagna la battuta ma perché ci fa riflettere sulle nostre abitudini e nevrosi dettate soprattutto dall'imbarazzo del cosa dire, insomma ci sta facendo ragionare sulla nostra difficoltà di comunicare.
Al di la delle generalizzazioni, che sono sempre da guardare con diffidenza, è anche vero che i comici che più mi stimolano sono quelli che traggono la comicità dalle cose semplici, senza ricorrere ad artifici, a caricature, a smorfie: Teo Teocoli quando racconta le sue memorie, Rocco Barbaro, Enrico Brignano, Olcese & Margiotta ecc. piuttosto che i pur straordinari Lino Banfi, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (comicità di altri tempi del resto, infatti in "Kaos" dei fratelli Taviani il duo esprime una drammaticità profonda e per niente comica, semmai ironica).
Luigi Pirandello parlava di senso del contrario e avvertimento del contrario per definire la differenza fra comicità e ironia. Una sottile ma fondamentale considerazione fatta da un grandissimo maestro che colse e definì in tal modo una caratteristica essenziale del nostro popolo e della nostra cultura.
Anche far piangere fa riflettere, induce a comprendere lo stato d'animo e gli interrogativi dei personaggi che sono i nostri, del resto nella tragedia shakespeariana c'è tutto: gli intrighi, la morte, le nevrosi, la malvagità, l'amore, l'incertezza, il potere, il dolore e la gioia. Ma far scorrere la lacrima, trasmettere l'emozione dolente, commuovere, è meno complesso: è più facile che si faccia fiasco perché non si sa far ridere che far fiasco perché non si riesce a commuovere.
Qualcuno potrebbe correre a deduzioni semplici come "questo dimostra che gli anglosassoni sono superficialoni e gli italiani sono sensibili!". Non è così. I fatti degli ultimi tempi dimostrano che la natura empatica delle nostre genti si è assottigliata, che gli americani hanno imparato a produrre opere di grande spessore drammatico, cui del resto non sono mai venuti meno (vedi Tennessee Williams o Arthur Miller ad esempio) e allo stesso tempo hanno prodotto comici come George Carlin o Louis C.K. che sanno far ridere facendo riflettere sulle cose di tutti i giorni, ma rimane il fatto che, malgrado la bravura e la grandezza inestimabile di un Jerry Lewis, dalle nostre parti ha più efficacia la sottile e caustica comicità di Dario Fo. E non è poco.
Sul tema della rista in teatro l'8 settembre 2019 ho pubblicato un post specifico https://giuseppeizzinosa.blogspot.com/2019/09/ridere.html)