sabato 28 settembre 2019

The show must go on

L’11 gennaio 2014 morì Arnoldo Foà.
Uno dei più grandi attori di tutti i tempi, la sua inconfondibile voce e il suo ammirevole garbo sono i tratti distintivi che più lo hanno reso indelebile nella memoria di generazioni di italiani e non solo.

Dalla sua “Autobiografia di un artista burbero” edita da Sellerio, fra le tante cose interessanti, ne ho colta una inquietante: Arnoldo Foà soffriva di emicrania anche fino a tre volte alla settimana.
Conosco quel dolore che per anni ha irritato e accompagnato anche me, e non oso immaginare cosa potesse significare stare in scena con quel tormento e dare lo stesso il meglio di sé esprimendo sempre talento e bravura.

La lezione che colgo da questo fatto è che quando si dice “the show must go on” si sta facendo un grande gesto d’amore verso il palcoscenico, verso lo spettatore, verso le proprie emozioni, verso sé stessi.
Per questo il teatro è educativo, formativo e responsabilizzante, in questi giorni in cui si aprono le porte di tanti corsi di teatro andiamoci, frequentiamone uno, impariamo a conoscere le emozioni, il dolore, i sentimenti poiché recitare significa vivere le emozioni del personaggio e condividerle col pubblico. Non importa se non saliremo mai su un palco, quello che conta è vivere l’esperienza per arrivarci.

domenica 8 settembre 2019

Ridere!

Ridere è un gesto, un'emozione, una manifestazione straordinaria e spontanea. Difficile ridere per finta, c'è chi lo fa e nella maggior parte dei casi in contesti discutibili, poiché la risata ha un dono intrinseco che, come il pianto, non consente finzione: si capisce se una risata è falsa e far uscire le lacrime senza l'emozione è davvero un talento di pochi. Ovviamente sul palcoscenico i bravi attori sanno trasferire la sensazione legata alla risata, e sovente si ride davvero, ma quella è un'arte, un talento messo a frutto con l'esercizio e col mestiere anche se Luis Jouvet sosteneva nelle sue "Sette lezioni di teatro" che il sentimento precede la battuta.

Ci sono però due tipi di risata: ridere con e ridere di.
Quando si ride con si crea una condivisione, si partecipa, si rende merito ad una situazione comica scaturita magari dall'avvertimento del contrario di pirandelliana memoria, e di fatto la risata diventa una festa collettiva.

Quando si ride di si crea invece quella situazione che il filosofo francese Henri-Louis Bergson (che considerava la tristezza un'emozione e la risata no) definisce con questa frase "il comico nasce quando uomini riuniti in gruppo dirigono l'attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità ed esercitando la loro intelligenza" (fonte: Per ridere Aggiungere acqua, pg. 102 - Marco Malvaldi - Rizzoli ed.). Siamo dunque di fronte allo scherno, alla derisione, alla sottile cattiveria della messa a ludibrio di una persona, dei suoi comportamenti e delle sue opinioni.
Non è sempre una cosa negativa la risata di, a volte consente di evidenziare contraddizioni, falsità o meschinità e ipocrisie, ma sovente tende ad essere provocazione, umiliazione, svalutazione (pensiamo al bullismo).

In scena spesso si ride di, ma è un ridere consapevole anzitutto di una finzione scenica e in secondo luogo di comportamenti e atteggiamenti grotteschi o discutibili. La risata prodotta da Dario Fo in "Mistero buffo" è sì un ridere di ma non di Dio (sul cui rapporto è illuminante il libro "Dario e Dio") ma delle contraddizioni e delle ipocrisie della religione, della Chiesa, del suo bigottismo e delle sue meschinità, in ultima analisi, la risata di "Mistero buffo" è la risata dell'uomo e delle sue debolezze, del fare il verso alle contraddizioni e ai miseri tentativi maldestri di elevazione a qualcosa che si conosce meno di quanto si vuol far credere.

Il ridere del pubblico è sempre un ridere con gli attori, è una forma di complicità fra palcoscenico e platea, fra chi recita e chi assiste. Si crea durante la risata una forma di complicità che coinvolge entrambi i protagonisti in sala: pubblico e attori, e in ultima analisi anche il regista. Semmai tutti insieme ridono di qualcosa qualcuno che li unisce in una condanna, anche perché Molière sosteneva che far ridere è lo strumento politico più efficace poiché la gente ride quando ha ragionato su ciò che ha sentito.
Anche per questo l'attore sul palco vive una profonda gratifica quando sente la risata del pubblico poiché essa, a differenza dell'applauso che è una forma di approvazione, è l'espressione della complicità e della condivisione, qualcosa che va oltre l'ammirazione, qualcosa che conferma che si sta recitando bene.

domenica 18 agosto 2019

Fatti e domande

Una delle tecniche di regia teatrale (ma non solo) riguarda uno strumento importante: la back history list: una lista delle attività che precedono l'azione scenica e che riguarda sia i contesti che i personaggi. La lista è divisa in due aree, i fatti e le domande, nella lista dei fatti si collocano gli elementi consolidati (luogo dell'azione, periodo temporale, identità dei personaggi ecc.) nella lista delle domande vengono riportati quegli elementi che per essere considerati fatti necessitano di una risposta; quindi fra le domande ci possono essere il passato dei personaggi, le distanze dal luogo dell'azione ad un altro luogo anche solo citato, le caratteristiche del luogo che sono fuori dalla scena, aspetti che vengono trattati come parte della narrazione (ad esempio: lo stipendio di 20 rubli mensili nel 1870 a quanto ammonta in euro attuali). Ogni volta che si fornisce una risposta, la domanda diventa un fatto.

Questa tecnica esposta molto bene da Katie Mitchell nel suo testo "Il mestiere della regia", tradotto da Federica Mazzocchi per i tipi della "Dino Audino Editore", offre lo spunto a delle considerazioni che vanno oltre la rappresentazione teatrale, ma insegnano dei concetti interessanti anche nella nostra vita di tutti i giorni.

La prima considerazione che mi viene in mente è che i fatti sono l'esito di risposte a domande che quanto più precise sono, maggiore sarà il livello di solidità di quei fatti emersi dalle risposte. Un conto è chiedere che tempo farà in questa settimana, un altro è chiedere che tempo farà martedì pomeriggio fra le 14 e le 17. Un conto è chiedere quale sia l'orientamento politico di un partito, un altro è chiedere quale programma intenderebbe adottare se fosse al governo. Le risposte alle seconde domande di questi esempi citati sono più mirate e assegnano ai fatti una maggiore precisione. Va anche riconosciuto che le prime sono più vaghe e consentono più  risposte, mentre le seconde sono più dirette e lasciano poco spazio a interpretazioni. Le prime sono più "diplomatiche", le seconde più "concrete". Torna alla mente il concetto di domanda aperta e domanda chiusa: la prima offre lo spazio a risposte più articolate, la seconda (caratterizzata da una risposta Sì o No) non lascia scampo. Semplificando: un conto è chiedere di parlare della tragedia della seconda guerra mondiale, un altro è chiedere se è vero che la seconda guerra mondiale sia esistita o meno.

Una seconda considerazione è che i fatti hanno una base meno solida di quanto si creda. Siamo soliti pensare che un fatto, poiché esito di una domanda e di una risposta, sia incontrovertibile. Ciò in parte è vero per l'oggettività (se oggi nevica non si può affermare che non sia così) ma se la domanda è poco precisa, il fatto perde di concretezza in quanto se viene chiesto se oggi ha nevicato ciò può essere vero per una parte del giorno ma magari non per tutto. Dunque, a seconda di come la domanda viene posta e di cosa ci si vuol sentire dire come risposta il fatto può assumere una maggiore o minore concretezza, ma la risposta può variare ed essere sempre corretta.

A tal proposito è illuminante un episodio relativo al "pilotare" le risposte [di cui purtroppo ho perso i riferimenti storici]: venne chiesto tanti anni fa ad un campione di popolazione statunitense se fossero favorevoli all'invio di truppe americane a difesa di popolazioni oppresse e il risultato fu particolarmente favorevole, ad un secondo campione venne chiesto se fossero d'accordo a far andare a rischiare la vita dei ragazzi americani per difendere popolazioni nel resto del mondo e il risultato fu molto ostile. Dunque emersero due fatti diversi difronte ad una stessa situazione: il consenso dei cittadini americani verso l'intervento delle loro truppe in difesa di altri popoli.

Nel dramma di Pirandello "Così è se vi pare" questo concetto viene esasperato e portato all'estremo. La verità è dunque, come i fatti, oggetto di differenti spiegazioni che nascono da domande poste sovente con diverse aspettative.

Anche lo spettatore si pone delle domande davanti al palcoscenico, anch'egli cerca delle risposte, risposte che si deve dare (si è detto qualche post fa) con sforzo, creandosi una sua regia ponendo l'attenzione dove vuole e non dove impone il/la regista (al contrario del cinema). Ogni volta che lo spettatore si da una risposta davanti ad una domanda ha interiorizzato un fatto, un cardine intorno al quale costruisce il prosieguo della narrazione che alla fine sarà un concatenarsi di fatti.

E' importante dunque che da chi ha il carico della regia all'ultima comparsa, ciascuno abbia ben chiare tutte le risposte e si sia posto le domande giuste, poiché gli spettatori applaudono sui fatti e fischiano sulle domande, quelle a cui non è stata data sufficiente risposta.

lunedì 12 agosto 2019

Segnatevi la data!

Mentre sotto l'ombrellone state gustando una caipirinha (i più fortunati) o una tachipirina ( i meno), noi stiamo tramando e ordendo il ritorno de "L'ultimo giorno".

Venerdì 25 ottobre alle ore 21 saremo di nuovo in scena al 
TEATRO DRAVELLI di MONCALIERI

Avremo novità, lo spettacolo si rinnova in continuazione, dopo la trasformazione del testo a marzo ora la figura femminile ha un volto: Vita Respina! Ma non è solo questo che bolle in pentola! Venite a vedere lo spettacolo e scoprirete interessanti novità.
Il teatro, a pochi passi dal complesso dell'Italia '61 a Torino ma già in territorio di Moncalieri è una sala che può ospitare anche un centinaio di posti e siamo intenzionati a riempirlo!



Vi aspettiamo numerosi!

Giuseppe Izzinosa
Sasca Malabaila
Maura Scalenghe
Vita Respina
Moreno Stefanini

domenica 14 luglio 2019

L'ombra di un gigante

Toni Bertorelli
Foto: La Repubblica 26/5/2017
Toni Bertorelli è mancato nel maggio 2017.
Ai più il suo nome dice poco ma è stato uno dei più grandi attori italiani di tutti i tempi oltre che regista e autore. Per avere un'idea della sua grandezza basti pensare ai registi con cui ha lavorato: Nanni Moretti, Mel Gibson, Marco Bellocchio, Edmo Fenoglio ottenendo riconoscimenti di altissimo livello. Diresse Franca Valeri e adattò a musical un'opera di Sheridan, scrisse anche un romanzo sul jazz a Torino.
Per chi volesse approfondirne la conoscenza (tempo ben speso), suggerisco di visitare il profilo su Wikipedia.

Una sua peculiarità fu quella di essere spesso premiato, riconosciuto e assegnato a ruoli di attore non protagonista pur essendo bravissimo. Il suo volto di caratterista e la sua recitazione asciutta, concreta e intensa non lo resero celebre come avrebbe meritato. Eppure senza di lui capolavori come "Le parole di mio padre", "L'ora di religione", "Luce dei miei occhi", per citarne alcuni, non avrebbero avuto la stessa incisività, anche perché un buon regista sa che per una parte ci vuole uno specifico attore e raramente accontentarsi di un sostituto di chi si era immaginato durante la sceneggiatura produce lo stesso effetto.

Ecco, Toni Bertorelli era un attore che viveva nell'ombra del firmamento artistico, ma ci sono ombre che nella loro immensità insegnano molto più di stelle effimere che dopo una luce abbagliante non lasciano molto del loro brillare.

martedì 2 luglio 2019

Lo sforzo del teatro

Scrivere a quattro mani è complicato.
Con Patrizia Tasinato siamo alla seconda stesura di un testo teatrale che porteremo in scena nella seconda metà della prossima stagione per la regia di Gian Carlo Fantò. Ne seguiranno altre, rivisitazioni e rimaneggiamenti necessari per offrire un testo credibile e, questa volta, divertente.

La cosa bella è il gesto creativo, ma anche il lavorio di cesello sulle battute, sulle parole, sugli equilibri dei dialoghi, di scena e controscena, sulla profondità più o meno grande della narrazione. Ma soprattutto la cosa bella è fermarsi davanti allo spettatore e decidere che la tale battuta non deve essere esplicita, ma deve essere indotta, lo spettatore deve arrivarci di suo, altrimenti si annoia.

La noia.
Il più temibile nemico con cui un autore deve fare i conti. In teatro la noia arriva quando tutto è scontato, non serve alcuno sforzo, la storia si dipana spiegando tutto e appiattendo ogni cosa su un didascalismo che sottrae allo spettatore il piacere di intuire, di farsi una sua storia sui detti e non detti in scena.

Ci vuole lo sforzo non solo dell’attore in scena, ma anche del pubblico in sala, lo sforzo di capire, di andare oltre l’evidente, di fare quel passaggio che comporta una scoperta, una rivelazione, un’intuizione in chi assiste e che è gratificato dal comprendere.

Dunque ci vuole uno sforzo da parte di chi scrive per generare tutto questo, poiché come diceva Louis Jouvet, “una cosa ottenuta senza sforzo non è buona”.

domenica 30 giugno 2019

Saper tacere

Mauro Stante con Patrizia Battaglia
e Niko Ferrucci
in un tempo ne “La locandiera”
È un bene prezioso, in ogni sua forma e significato il tempo condiziona la nostra esistenza. Nella nostra lingua poi ancor di più poiché con la medesima parola si può indicare tanto il suo significato cronologico che quello meteorologico, e in questa commistione si può pure ricorrere a metafore che facciano riferimento allo stato delle cose.
Il tempo è oggetto di poesie e canzoni per il suo contenuto carico di significati, a tal proposito suggerisco l’ascolto di “C’è tempo” di Ivano Fossati in cui esso diventa autentica metafora dell’esistenza.
Nel teatro assume significati importantissimi. Determina la comicità o il dramma, sposta l’attenzione o genera attesa, esprime emozioni attraverso il suo uso accorto.
“La comicità, sostiene Gigi Proietti, è questione di tempi”. Porre un silenzio dopo una frase produce aspettativa, aiuta lo spettatore a percepire meglio l’espressione dell’attore, quel silenzio può cambiare il senso di una frase, pensiamo a quando si espone un concetto con piglio sicuro e poi si chiude con una pausa, e si chiede “...o no?”. L’effetto comico è dato sì dal senso del contrario, come diceva Pirandello, ma la sua connotazione, la sua importanza e il suo significato è determinato dalla durata di quel tempo.
Il silenzio parla: c’è un silenzio indifferente, uno stupito, uno rassegnato, uno euforico e uno addolorato, uno tragico e uno felice, uno terrorizzato e uno severo, uno allegro e uno triste e così via. Il “tempo” nel teatro è il silenzio fra una frase e l’altra e la sua importanza è tale che la bravura di un attore è determinata più dal suo silenzio che dalla sua orazione, poiché la recitazione non è solo declamazione ma un insieme di elementi fra i quali il silenzio è una componente fondamentale, un attore è tanto più bravo quanto più sa tacere.