martedì 17 marzo 2020

La linea del tempo

Una delle differenze fra cinema e teatro, per un attore, sta nel fatto che sul palcoscenico si entra in scena secondo uno schema temporale definito che segue la trama della narrazione, nel cinema le riprese in un set non tengono conto del tempo, per cui se in un bar, per esempio, si devono girare delle riprese, esse per ottimizzare i costi riguarderanno diversi momenti dello schema temporale della trama, per cui ci si può trovare a recitare scene dell'inizio della storia e pochi minuti dopo del finale. Poi ci sono riprese di esterni che il regista fa eseguire in cui l'attore deve solo camminare o fare un'azione passiva di cui non sempre ha chiaro lo scopo ma è tutto nella testa del regista, riprese che magari non saranno mai montate.

L'unica volta che ho recitato in un cortometraggio per un corso di produzione video che avevo frequentato nel 2012, trovai estremamente spersonalizzante l'esperienza cinematografica. Al contrario seguire lo schema temporale della trama di uno spettacolo teatrale mi permette più facilmente di entrare, e rimanere, nel personaggio.

Quello che segue è il cortometraggio che producemmo con i miei compagni di corso sotto la direzione di Rodolfo Colombara.



domenica 5 gennaio 2020

Fammi ridere!

Nel 1987 mi trovavo a Ibiza, con un gruppo di turisti italiani, inglesi e americani, eravamo andati ad assistere a una serata di cabaret internazionale. Fra le esibizioni vi era quella di un gruppo americano che suonava del buon jazz e nel cui cast spiccava un artista di colore che oltre ad essere un abile vocalist aveva anche doti comiche. In diversi momenti faceva le facce strane, cambiava il timbro della voce (peraltro dotata di bassi potenti, alla Barry White per intenderci) e assumeva toni grotteschi e riconducibili a Jerry Lewis.
I nostri amici anglosassoni ridevano come matti di quelle performance mentre noi italiani restavamo alquanto indifferenti e, a parte qualche risolino più di circostanza che di sostanza, piuttosto irritati da quello scomposto ridere davanti a cose poco coinvolgenti, almeno per noi.
Notai in quell'occasione come far ridere gli anglosassoni, e soprattutto gli americani, fosse estremamente facile. M'inventai dunque la "sindrome del picchiatello" (dal celebre film di e con Jerry Lewis "Qua la mano picchiatello"), intesa come quella forma di comicità non basata sui contenuti ma sull'esteriorità. Una comicità leggera, che non induce a riflettere ma a ridere e a deridere.
Ebbi la fortuna di scambiare su questo tema, anni dopo, due parole con Bruno Lauzi il quale convenne con me che far ridere gli americani in fondo è facile ma far ridere gli italiani è piuttosto difficile, "vero -aggiunse lui- ma è altrettanto più facile far piangere gli italiani che gli americani. In Italia -aggiunse- parla della madre, fai melodramma e farai scorrere fiumi di lacrime."

Pensavo a queste parole quando qualche sera fa fra amici si parlava dei soggetti che ho in mente di mettere in scena da qui ai prossimi quattro anni: tutti drammi e tragedie. Mi chiedevano "ma tu, qualcosa di allegro mai eh?"; hanno ragione, la comicità per noi italiani è complicata. È difficile far ridere anche se questo è ciò che il pubblico chiede. Vedo che le commedie brillanti, i comici, il cabaret hanno quasi sempre fortuna, mentre i drammi e le tragedie, a meno che non siano portate in scena da grandi protagonisti del palcoscenico, fanno più fatica a riempire le sale.
Molière sosteneva che la gente ride perché ragiona su ciò che ha sentito ecco perché l'arte comica è la migliore per trasmettere messaggi politici e per far riflettere. Quando per esempio Rocco Barbaro nei suoi sketch ci fa ridere di due calabresi che si incontrano per caso e dicono "Che si dice? Che si dice?" ecc. ci fa ridere non tanto e soltanto per la mimica espressiva che accompagna la battuta ma perché ci fa riflettere sulle nostre abitudini e nevrosi dettate soprattutto dall'imbarazzo del cosa dire, insomma ci sta facendo ragionare sulla nostra difficoltà di comunicare.
Al di la delle generalizzazioni, che sono sempre da guardare con diffidenza, è anche vero che i comici che più mi stimolano sono quelli che traggono la comicità dalle cose semplici, senza ricorrere ad artifici, a caricature, a smorfie: Teo Teocoli quando racconta le sue memorie, Rocco Barbaro, Enrico Brignano, Olcese & Margiotta ecc. piuttosto che i pur straordinari Lino Banfi, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (comicità di altri tempi del resto, infatti in "Kaos" dei fratelli Taviani il duo esprime una drammaticità profonda e per niente comica, semmai ironica).

Luigi Pirandello parlava di senso del contrario e avvertimento del contrario per definire la differenza fra comicità e ironia. Una sottile ma fondamentale considerazione fatta da un grandissimo maestro che colse e definì in tal modo una caratteristica essenziale del nostro popolo e della nostra cultura.
Anche far piangere fa riflettere, induce a comprendere lo stato d'animo e gli interrogativi dei personaggi che sono i nostri, del resto nella tragedia shakespeariana c'è tutto: gli intrighi, la morte, le nevrosi, la malvagità, l'amore, l'incertezza, il potere, il dolore e la gioia. Ma far scorrere la lacrima, trasmettere l'emozione dolente, commuovere, è meno complesso: è più facile che si faccia fiasco perché non si sa far ridere che far fiasco perché non si riesce a commuovere.

Qualcuno potrebbe correre a deduzioni semplici come "questo dimostra che gli anglosassoni sono superficialoni e gli italiani sono sensibili!". Non è così. I fatti degli ultimi tempi dimostrano che la natura empatica delle nostre genti si è assottigliata, che gli americani hanno imparato a produrre opere di grande spessore drammatico, cui del resto non sono mai venuti meno (vedi Tennessee Williams o Arthur Miller ad esempio) e allo stesso tempo hanno prodotto comici come George Carlin o Louis C.K. che sanno far ridere facendo riflettere sulle cose di tutti i giorni, ma rimane il fatto che, malgrado la bravura e la grandezza inestimabile di un Jerry Lewis, dalle nostre parti ha più efficacia la sottile e caustica comicità di Dario Fo. E non è poco.

Sul tema della rista in teatro l'8 settembre 2019 ho pubblicato un post specifico https://giuseppeizzinosa.blogspot.com/2019/09/ridere.html)

sabato 7 dicembre 2019

ReAzione

Photo by Grafixar - Morguefile.com
Spesso l’attore si chiede, quando entra in scena, “che faccio?”. In realtà sebbene la domanda sia quasi fisiologica e del tutto legittima, la domanda più giusta dovrebbe essere  “come reagisco?”. L’azione scenica è anzitutto reazione alla situazione, all’azione, al contesto.

Ho fatto tanti anni il rappresentante e la prima cosa che ho imparato (e insegnato a mia volta) era di reagire alle obiezioni dei clienti arrabbiati per i disguidi dell’azienda che rappresentavo, consegne in ritardo, prodotti sbagliati o mancanti, fatture errate ecc., situazioni in cui il cliente aveva ragione. Se l’obiezione era manifestata entro certi limiti di educazione e rispetto, la reazione non doveva essere un’azione (“provvedo subito”, “lei ha ordinato tardi!”, “sono cose che succedono, che ci vuole fare?”) ma una manifestazione di dispiacere, di “dolore” condiviso col cliente, di una compassione (intesa come “patire-con” cioè insieme) far capire cioè all’interlocutore che lo si comprendeva e si era solidali con lui. Solo dopo questo passaggio si poteva procedere all’azione, in sintonia col cliente si cercava la soluzione.

In scena è lo stesso. La prima cosa che il pubblico si attende è la reazione dell’attore aggredito, ferito o esaltato e riverito: ti sparo? Non puoi spararmi a tua volta, se ti ho colpito manifesto la sofferenza se non mi hai colpito cerco riparo e rispondo (se sono armato) al fuoco, se mi insulti non ti contro insulto subito ma faccio percepire il disagio e la rabbia, e solo dopo passo all’azione. Altrimenti tutto diventa un botta-e-risposta che raramente appassiona e spesso annoia lo spettatore. L’emozione passa attraverso la reazione degli attori come un agire in conseguenza di qualcosa e non come sterile ribattuta.

Lo spettatore vuole emozionarsi, vedere e “sentire” quello che provano i personaggi. Altrimenti si annoia, diventa tutto come in una partita di tennis fra robot dove ogni lancio è preciso e ribattuto ma senza produrre emozione: dopo pochi secondi arriva lo sbadiglio.

venerdì 29 novembre 2019

L'esprit de l'escalier

Avere amici è una bella cosa ma averne di ottimi è una fortuna. Fra questi annovero Giulio Liberati, attore raffinato e ottimo interprete di bei lavori spesso difficili recitati con rara profondità. Mi sono imbattuto in un post che ha pubblicato su Facebook e che per chi ama il teatro (ma non solo) merita di essere letto e meditato.
E se poi, dopo averlo letto, viene voglia di leggere "Il paradosso dell'attore" sarà un bel regalo che ci saremo fatti per soddisfare la sete di conoscenza... e magari se lo regaliamo anche per Natale sarebbe una gioia ancora più grande.

"Io sono ignorante. Lo dico senza falsa modestia. Ignoro moltissime cose, la loro genesi, il loro inserimento nei discorsi e così via. Per questo motivo quando leggo un libro mi avvalgo della presenza del cellulare al mio fianco. Un po' perché se quello che leggo non mi interessa molto devio la mia attenzione su Candy Crash per qualche minuto, ma in realtà utilizzo il cellulare per andare su Internet e cercare una spiegazione ad una parola, una citazione che sto leggendo e che non conosco... (l'ho detto all'inizio: sono ignorante).

Adesso sto avidamente leggendo La misura del tempo di Carofiglio. Tralascio i commenti sul libro perché scenderei nell'enfatico e sarebbe un po' imbarazzante, ma vorrei condividere con voi una ricerca che ho affrontato leggendo le pagine del mio avvocato preferito, Guido Guerrieri. La citazione è "L'esprit de l'escalier". Carofiglio la butta li come se fosse una citazione comune... per lui forse, non per me che sono ignorante. Allora mollo il libro e afferro il cellulare... Google... traduttore dal francese... Lo spirito delle scale. Fin lì c'ero arrivato pure io anche se non conosco il francese. 

Ma che vuole dire questa citazione? 
Il contesto in cui era stata citata era relativa ad una testimonianza di una madre in tribunale per cercare di salvare il figlio da una pesante condanna per omicidio, Durante l'interrogatorio il Pubblico Ministero tira fuori ad arte una vecchia situazione giudiziaria che riguardava la signora e lei rimane imbarazzata e farfuglia qualcosa di non chiaro che la mette in cattiva luce nei confronti del Giudice... non sto a spoilerare il libro perché vi invito a leggerlo caldamente, ma cosa c'entrava L'esprit de l'escalier con questa situazione? 

Allora approfondisco ed esco dal traduttore e vado sulla ricerca generica della citazione e scopro un mondo... Cito testuale da Wikipedia:"A coniare l'espressione, dando il nome al fenomeno, è stato il filosofo illuminista Denis Diderot, nel Paradosso sull'attore. Durante una cena a casa di Jacques Necker gli fu opposta un'obiezione che sul momento riuscì ad azzittirlo lasciandolo senza argomenti, in quanto, come egli spiega, «l'homme sensible, comme moi, tout entier à ce qu'on lui objecte, perd la tête et ne se retrouve qu'au bas de l'escalier» ("L'uomo sensibile, come me, colpito dall'argomentazione data a suo sfavore, perde la testa e non la ritrova se non in fondo alle scale")".

Nel giro di qualche minuto ho riportato alla mente Diderot, che ricordavo solo come enciclopedista illuminista e basta, mi ha fatto conoscere Il Paradosso dell'attore, libro che dovrò acquistare perché in quanto attore io sono esattamente un paradosso, mi ha riportato all'Illuminismo, conosciuto in modo approssimativo solo sui banchi di scuola..... Un fenomeno che Carofiglio ha citato en passant e che a me ha aperto un mondo. Ecco perché affermo la mia ignoranza a gran voce e adesso dopo questo sproloquio da anziano mi faccio una partitina a Candy Crash per allevare con amore la mia ignoranza..."

Giulio Liberati

sabato 23 novembre 2019

L'attore e le sue domande

Nella sua autobiografia Giancarlo Giannini riporta una frase di Milan Kundera a proposito delle proprie insicurezze che cura cercando risposte, la frase è "la stupidità della gente deriva dall'avere una risposta per ogni cosa; la saggezza deriva dall'avere una domanda per ogni cosa".

Nel teatro esiste la "Back history list", letteralmente "la lista della storia precedente", ne ho già parlato in passato a proposito del ruolo della regia secondo le indicazioni di Kate Mitchell nel suo testo "Il mestiere della regia". Si tratta di una lista di domande e risposte, ogni cosa che non si sa diventa una domanda, quando ad essa si offre una risposta esaustiva si trasforma in un fatto che diventa un "punto d'appoggio" per la recitazione.

Quando recito un personaggio mi pongo molte domande su di lui: quanti anni ha? Che titolo di studio ha conseguito? Quanto guadagna? Ha figli? Di dove è originario? Che cosa lo ha portato ad assumere il comportamento del copione? Perché si muove in quel modo in scena? Se il personaggio appartiene al passato, a quanto corrispondono in vaolre attuale le misure e i valori venali e morali di ciò che possiede e di chi gli sta intorno? Queste e molte altre ancora sono le domande che un attore si deve porre, e prima di lui il regista e prima ancora di questi l'autore. Se poi le tre figure coincidono nella stessa persona tutto diventa più facile e più lineare, ma questo non vuol dire che quelle domande non ce le si deve porre. Anzi.

Da qualche tempo sto pensando ad una pièce teatrale da portare in scena nella stagione 2021-2022 su un autore dei primi del novecento e per dare le risposte giuste visiterò Praga poiché a diverse domande posso rispondere solo recandomi nei luoghi in cui ha vissuto e dove ha manifestato l'essenza del suo pensiero, poiché se voglio parlare di lui in maniera esaustiva non posso limitarmi a biografie e testi (sia pur importantissimi) ma devo respirare la stessa aria e camminare negli stessi luoghi dove ha camminato lui, sentire la lingua che lui parlava e coglierne la musicalità. Dovrò in sostanza trovare la maggior quantità di risposte al gran numero di domande che lui, come chiunque di noi, pone per il solo fatto di esistere.

L'attore che vuole recitare bene il suo personaggio ha il dovere di porsi (e porre) delle domande, poiché più risposte possiede più efficace sarà la sua recitazione e maggiore sarà la sicurezza con cui trasmetterà il personaggio. Porsi domande e cercare risposte comporta uno sforzo e citando Louis Jouvet "Una cosa ottenuta senza sforzo non è buona, è priva di qualcosa". Anche questa è saggezza.

mercoledì 13 novembre 2019

Il perdono


Fra amici e conoscenti e, più in generale, fra coloro che hanno ascoltato il podcast "Dopo" che ho scritto, diretto e interpretato con Vita Respina, ho notato un certo disagio; si tratta di un noir e tutti i noir sono spiazzanti, angoscianti e sovente toccanti. Ciò che ha turbato maggiormente è la frase centrale intorno a cui si annoda tutta la trama del racconto breve: "non posso perdonarti, se lo facessi ti perderei per sempre".

Il perdono è un atto di umanità, una rinuncia ad ogni vendetta, un gesto generoso pervaso di nobili sentimenti. Il perdono comporta spesso un travaglio interiore, un percorso complesso e articolato nell'animo di chi lo offre, talvolta è una forma di resa: si perdona più per non soffrire che per un senso di umanità, lo si affronta come un anestetico di fronte al dolore sofferto e succede anche che il perdono sia una forma di rassegnazione davanti a un torto che non si può vendicare.

Quali che siano i percorsi affrontati, le motivazioni, gli stati d'animo, i contesti e le condizioni, il perdono rimane uno dei gesti più affascinanti e delicati su cui poeti, cantanti e scrittori hanno composto eccellenti opere e non mancano saggi e trattati sull'argomento: dalla visione terapeutica a quella comportamentale, da quella religiosa a quella filosofica molto inchiostro è stato (spesso bene) versato.
Ivano Fossati ha collocato la parola alla fine di una bellissima canzone ad esso dedicata "L'amore fa" con il celebre passo finale "comprendere il perdono, l'amore fa." spiegando che un concetto di questa portata richiedeva un avvicinamento che passasse per l'amore.

Per parte mia ho cercato di mettere sul piatto un concetto che non ho mai sentito a proposito del perdono, magari lo hanno fatto altri prima di me e nella mia ignoranza non ne ero al corrente: il perdono inteso come legame che si crea fra chi espia la colpa e chi concede il perdono in un ruolo che produce una sorta di dipendenza che lega entrambi: chi espia, per liberarsi di una colpa, chi perdona, per esercitare un potere. La negazione nel caso specifico è un modo per praticare una forma di dipendenza sul "colpevole", perde la sua connotazione nobile e diventa a sua volta una forma di vendetta.

venerdì 1 novembre 2019

Il silenzio del cuore

Le tende sono chiuse, il silenzio carico di tensione è assordante, non sai quanti spettatori sono presenti, speri che siano tanti non per l'incasso, anche quello sì, ma perché sai che se ci sarà tanta gente l'atmosfera sarà più calda, potrai parlare da cuore a molti cuori.
Le tende si aprono, il buio della "quarta parete" irrompe sulla scena con tutto il suo carico di incognite e di speranze, una luce si accende, quella luce salvifica che non ti fa vedere, distingui a malapena le teste, gli occhi, le presenze delle prime file e speri che non siano le sole.
Poi cominci, il tuo inizio è tutto, le prime parole sono quelle che fanno la differenza, da come le pronunci, da quanta forza ci metti, da quale ritmo imponi dipende tutto. La luce è accecante ed è una fortuna, nell'oscurità non puoi vedere le reazioni del pubblico, quelle reazioni che potrebbero arrivare a bloccarti, che potrebbero gettarti nel panico, che però percepisci. Il silenzio è tuo complice e nemico, quel silenzio che non sai fino alla fine se è attesa, approvazione, complicità, indifferenza o cosa... chissà...
Come una piccola crepa improvvisamente si apre la strada e divide i muri, quella tensione si spezza, si spacca, si dissolve e tutto parte, tutto comincia e tutto prosegue.
Ed è in quel momento che si compie un piccolo miracolo, quello di parlare al cuore degli spettatori, quello di liberare le emozioni e condividerle con loro perché, anche se lo sai a priori, ti rendi conto in quell'attimo che tutti quei cuori sono diversi e tu devi raggiungerli uno per uno e parlargli, scaldarli, coinvolgerli, e gli parli con parole fatte di silenzio, le battute sono solo il canale, lo strumento attraverso cui quel silenzio fatto di emozioni, complicità, valori e disvalori, sentimento raggiunge il cuore di chi ti guarda.
Aveva ragione Vittorio Gassman quando parlava dell'applauso finale come momento orgasmico dell'attore col pubblico, infatti come dopo aver fatto l'amore si è stanchi, sfiniti, svuotati di quella tensione e si è pronti per ricevere, proprio come quando, dopo l'orgasmo viene l'amore, l'affetto, il silenzio, quando cala il sipario ritorna quel silenzio, un silenzio diverso, un silenzio modificato rispetto a quello di prima, un silenzio esausto. Il silenzio del cuore.